Article body

Dall’etica all’ipocrisia

"Tutti dicono la stessa cosa: bisogna essere se stessi. Gli amici, i genitori, il mio psichiatra. Sono prostrato: proprio nessuna ambizione!"

Sempé

Nella fase finale della sua vita, Michel Foucault rivolse la sua attenzione a quella parte della filosofia antica fino ad allora poco esplorata, "i cinici", una sorta di pensiero radicale, ancora più virtuoso rispetto alla "conoscenza essenziale" dei platonici: "Di cosa abbiamo bisogno per vivere?". Si tratta di vivere alla lettera, secondo i principi di verità della natura allo stato selvaggio, "la vita vera", una "vita altra" fatta di privazioni e di una povertà totale, "una vita scandalosa e preoccupante in grado di far esplodere l’ipocrisia dei valori ricevuti".

In sostanza, il ragionevole ordinario si costituirebbe di quella dose d’ipocrisia necessaria all’esistenza di un consenso nel modo di pensare, sempre d’accordo, in tutto e per tutto, con la vita sociale. La costruzione della privazione interiore permetterebbe, al contrario, di raggiungere la tranquillità personale, pur provocando una "irruzione dissonante nel bel mezzo del concerto delle menzogne e delle iniquità dissimulate" (Frédéric Gros).

Ecco dove si situerebbe la posizione ragionevole vera e propria, il cui punto di riferimento fondamentale non è più la ragione, né un giudizio sulla posizione più conforme in un dato contesto, bensì un’etica. Tutto ciò che non risulta necessario è superfluo. Non ci troviamo neppure di fronte ad una scelta morale tra il bene e il male, perché il bene è esso stesso superfluo.

Tale posizione estrema risulta interessante in relazione alla nozione di "ragionevole" nella quale viene a collocarsi la concezione etica ASSOLUTA rispetto a se stessi e quella RELATIVA al consenso sociale. In definitiva, essa si avvicina di molto ad una posizione funzionale e operatoria o all’ideologia della gestione. Ma pure alla depressione traumatica, in cui la psiche non è più in grado di trarre piacere da nulla e si accontenta semplicemente di sopravvivere, nel tentativo di preservare il futuro. Ne consegue una totale assenza di fantasmi o il ritorno incessante del dolore, o degli incubi, l’assenza di vita sessuale, di piaceri alimentari. Sopravvivere si riduce all’essenziale.

Ma la sopravvivenza, intesa in questo senso, è la vita di un "morto psichico", in quanto la vita è affine a tutto ciò che "va al di là" dello stretto necessario.

L’abbandono dello stato di sopravvivenza conduce sia verso la morte, sia al ritorno della ricerca di molteplici soddisfazioni, misere e ordinarie, le quali, in realtà, non possono realizzarsi se non attraverso la ricostituzione di una visione magica dell’universo che il traumatismo ha fatto crollare.

In tali condizioni è possibile affermare che la riduzione cinica al necessario operatorio equivale alla morte psichica. Questa riduzione mortifera del pensiero dell’individuo, il quale intuisce la sua fine, non ci stupisce più di tanto, benché altre posizioni (approfittare fino in fondo della vita) siano possibili.

Roland Barthes, in Mythologies (1957), aveva già approfondito l’idea che noi siamo "condannati per un certo lasso di tempo a dover parlar sempre in modo eccessivo del reale. Ciò che è certo è che l’ideologismo e il suo contrario (poetare) siano delle condotte magiche, teorizzate, accecate e affascinate dalla frattura del mondo sociale".

Il ragionevole consisterebbe nel cessare di voler vivere "eccessivamente" la realtà al fine di abbandonare il mondo magico che vorremo invece conservare, servendoci della frattura del mondo sociale come pretesto. Come se il sociale fosse il fondamento necessario del pensiero magico, così come accade per il "sogno americano".

Secondo il poeta Yves Bonnefoi, l’intelligenza dell’uomo moderno consisterebbe in una guarigione dai miti e dalle credenze. D’altro canto Rimbaud ci porta ad affermare che la vita ha un senso, che essa è orientata verso un avvenire in potenza (Notre besoin de Rimbaud, Ed. du Seuil).

Sartre, da parte sua, ripudiando qualsiasi mitologia, non è forse rimasto insabbiato nel mito dell’unico orizzonte possibile, vale a dire, il comunismo?

È proprio in questo esatto punto che risiede la contraddizione fondamentale della nostra epoca, la quale, volendosi sbarazzare dei miti, da un lato nega il pensiero magico e le credenze religiose, dall’altro ne edifica di nuovi, come fa Yves Bonnefoi con Rimbaud o, Sartre con il comunismo.

Eppure, queste nuove credenze, pur essendo implicite e celate, ci costano molto care perché ci asserviscono, nostro malgrado, a dei nuovi precetti e a dei nuovi ideali che non dovremmo rimettere in discussione.

Com’è possibile restare ragionevoli in una tale trama di contraddizioni? A questo punto, risulta chiara la posizione cinica di Foucault: perlomeno sappiamo di cosa si tratta, il ragionevole viene collocato nella sua posizione più semplice, altresì la più ovvia.

"Il meglio è nemico del bene" come affermava anche Ivan Illich.

Il guaio è che questa posizione ragionevole è insostenibile. Voler essere ragionevoli diventerebbe irragionevole. L’affermazione di Pascal "chi vuol fare l’angelo fa la bestia" è discutibile, poiché essa lascia intendere che bisognerebbe, in un certo qual modo, accordare alla bestia che è in noi la sua dose d’irrazionale e di follia, in modo da non perturbarci troppo e consentire all’angelo della ragione di regnare sull’essenziale delle nostre vite - una sorta di "parte maledetta" di cui bisognerebbe aver cura.

Succede invece che la ragione, nella sua volontà di capire , gestire e controllare tutto, si fa essa stessa nuovo mito, ancora più dittatore rispetto a tutti gli altri e, nella maggior parte dei casi, per giunta alleato con il sadismo della virtù.

Cos’è che potrebbe darci un nuovo riferimento di ciò che è ragionevole?

L’unica cosa certa è l’eccesso delle nostre vite, l’insaziabilità delle nostre pulsioni, sia che si tratti di gola, di lussuria o della nostra volontà di potenza e di conoscenza. Fallimenti compresi. Non si tratta più di enumerare i peccati capitali. Dovremmo essere in grado di ammettere, una volta per tutte, che siamo dei peccatori senza assoluzione.

L’unico vero problema consiste nel capire com’è possibile gestire l’eccesso che è in noi. E spetta al ragionevole il compito di gestire l’impossibile. Però, è anche vero che qualsiasi posizione ragionevole viene smentita dall’eccesso. Per giunta, com’è possibile continuare a parlare di ragionevolezza nel momento in cui ammettiamo di essere sopraffatti dal troppo? Come riuscire a gestire il troppo che risulta sempre troppo? A partire dal momento in cui lo ammettiamo, possono ancora esserci dei limiti?

Peggio ancora: ogni mito contiene un eccesso fanatico. Lasciarsi sopraffare dal "troppo" non significa forse imbarcarsi in una o più posizioni fanatiche? Perciò, il ragionevole non consisterebbe forse nel condannare tutti i "troppo" possibili e immaginabili, affinché si manifestino il meno possibile, attraverso leggi sempre più rigorose, finalizzate al controllo di tutti i "troppo" perpetuamente reinventati dagli esseri umani? Anche a costo di chiudere talvolta gli occhi, di graduare al meglio le punizioni, o d’arrogarsi il potere e la gloria in nome della legge. Non c’è nulla di più saggio che servirsi della virtù per appagare il troppo! Ma nel complesso, bisogna comportarsi come con i bambini: la virtù, pur sapendo di non essere sostenibile, deve fingere di esserlo, come in una sorta di ipocrisia costituzionale dell’uomo e della società. A partire da questo momento, il ragionevole non è altro che un’ipocrisia ben gestita!

Il dilemma di Hobbes

"A sei anni e mezzo capì chiaramente che gli uomini erano pazzi".

Boris Cyrulink

Com’è possibile che il ragionevole, una volta acquisita la saggezza necessaria ad ammettere l’esistenza del "troppo" come dato fondamentale, sia in grado di tollerare il fanatismo di ognuno? Dato che l’ipocrisia, da sola, non è sufficiente, il fanatismo individuale, nonostante il politichese ordinario, è lì per abusare di tutti i poteri, poiché l’abuso è l’ordinario del troppo (Cf. Hobbes, Économie, Terreur et Politique de Pierre Dockès, Economica, 2008).

Confutando la tesi di Adam Smith, il quale credeva, alla guisa d’Alan Greenspan, ex-direttore della FED, che i vizi privati facessero le virtù pubbliche e che, in definitiva, l’egoismo di ciascuno costituisse una garanzia per tutti, Hobbes parla di una diffidenza necessaria e generalizzata, sostenendo inoltre, che si ha ragione nel provare paura. Egli rimette radicalmente in discussione l’ipocrisia comune che tende a considerare implicitamente l’uomo come essere virtuoso e ragionevole, col fine di mettere in luce - ma che scandalo! - l’aggressività di ciascuno.

Ognuno di noi è consapevole di ciò, ma è preferibile che non se ne parli. A meno di non far parte di coloro che credono, nel loro intimo più profondo, di essere dei veri "mostri", pur non essendo paragonabili ai criminali patentati, che, senza alcun dubbio, loro non diventeranno mai. "L’uomo nasce buono, la società lo corrompe". Ecco in cosa consiste l’antifona rassicurante di Rousseau e di Marguerite Mead che Hobbes ha stravolto. Parlare dell’insaziabile umano, se non addirittura della sua megalomania (non solamente infantile!), non significa affermare che le cose andranno male o che la terra verrà messa a ferro e fuoco. Infatti, l’insaziabile, e la megalomania che inevitabilmente lo accompagna nel suo lato narcisistico, non conducono necessariamente al peggio. Anch’essi sono da considerarsi come i motori indiscussi di ogni successo umano.

Ma per Hobbes, le cose vanno inevitabilmente a finir male, poiché i trattati di pace sono di breve durata. É dunque ragionevole avere paura degli altri, altrimenti siamo finiti.

La conflittualità è la condizione ordinaria delle relazioni umane ed è, per di più, causa di guerra, senza altra via d’uscita possibile, se non quella del Leviatano che regna attraverso il terrore. Unico potere collettivo, Dio mortale, in grado di garantire i vecchi trattati di pace tra gli uomini. Una sorta di tirannia necessaria, capace di dominare le passioni di ciascuno.

Laddove non è il Leviatano a regnare, il potere è in mano al più forte e viene continuamente rovesciato dal sovvertimento di un’alleanza e dalla decadenza inevitabile di ogni forza, qualsiasi essa sia, col conseguente e inevitabile ritorno della guerra.

Il tutto sorretto da un principio superiore: per sperare di vincere bisogna sparare per primi, alla maniera dei cowboys negli westerns, poiché se ci si lascia sfuggire l’occasione, non esiste più alcuna alternativa possibile.

Perciò, se ci fermiamo un attimo a considerare ciò che potremmo definire ragionevole al punto in cui siamo: si tratterebbe di attaccare per primi! Solo colui che osa vince e forza l’avversario o gli avversari ad una serie di arretramenti senza fine. Hitler ne è un esempio. Decidere di non firmare a Monaco è stato certo l’atto più ragionevole da compiersi. La cosa più assurda è che Daladier ne era consapevole, ma non ha avuto il coraggio di opporsi a Chamberlain. Difficile opporsi a ciò che diventava pressoché ineluttabile!

Ma il dubbio permane: è probabile che colui che osa puntare la pistola per primo si trovi solo contro tutti e rischi d’infrangere un consenso possibile, ma non verificabile a priori.

Il ragionevole in questo punto esatto si regge su fattori imponderabili. E secondo quanto afferma Hobbes conoscere se stessi, permette di "conoscerli tutti". La sua è certamente una curiosa semplificazione, ma come inizio non è male!

C’è da chiedersi, se l’esperienza della guerra porti alla ricerca infinita, inarrestabile del regolamento dei conti (Napoleone) o, al contrario, se essa lasci spazio all’esitazione. Hobbes affermava, in maniera analoga, che il consenso spontaneo sarebbe stato di breve durata, se non si fosse provveduto all’instaurazione di una forma di potere centralizzato, quale il mercato comune del carbone e dell’acciaio, effettivamente instauratosi in seguito alla carneficina delle due guerre mondiali.

In questo senso, il nuovo Leviatano, ovvero l’Europa dell’euro, rappresenta un gran passo in avanti, malgrado le sue carenze politiche, soprattutto se si prendono in considerazione le assurde conseguenze delle guerre europee nel corso dei secoli.

Ora, l’emergere di questa prodezza del ragionevole non costituisce un mito!

Fino a quando l’Europa non sarà in grado di risolvere i nostri problemi con una certa immediatezza, noi saremo incapaci di riconoscerne i benefici a lungo termine, e la solida eredità che lasciamo ai nostri figli. Il ragionevole non costituisce un mito perché non è folle quanto basta, dal momento in cui i nazionalismi del passato, alla pari dei vecchi regolamenti di conti di natura politica o ideologica, risultano essere molto più mitici! Ecco perché siamo indietro di un mito! Questo discorso vale anche per i politici, i quali devono proporsi come demiurghi ed essere in grado di guarirci da tutti i mali.

E’ certamente dotato di grande abilità colui che riesce a farlo credere senza parlarne troppo! Per quanto alcuni non temano il ridicolo. Poiché ogni tipo di politica di riforma richiede tempi lunghi e le rane che hanno bisogno di un re sostituiscono spesso il re, i politici rifilano in continuazione ai loro successori riforme difficili da promuovere.

Il ragionevole è minato da questa ricerca frenetica di un eroe a qualsiasi costo, il quale risolverebbe come per magia tutti i problemi. Un espediente, questo, che indebolisce la democrazia.

È pertanto vano auspicare l’arrivo sulla scena di un politico di buona fede che non voglia far la parte dell’eroe.

Ciò che predomina alla fine è sempre la parata di uno Stato basato sullo spettacolo. Soltanto il carisma, nonostante la sua provvisorietà, ha buone probabilità di prevalere. Prendiamo il caso di Chavez e di Obama. Il carisma può portare al peggiore, come al migliore.

Il teatro della politica mostra fino a che punto sia difficile ritrovare delle posizioni ragionevoli, quando a prevalere è sempre una magia a breve termine. Invecchiare nel mestiere, fino al punto di generare delle politiche logorate, non risulta più ragionevole di quanto non lo sia il sistema americano, il quale consente a uomini nuovi di emergere. Il problema, più in generale, consiste nel capire se è possibile scegliere in maniera ragionevole la magia o i miti necessari a sostenere l’illusione delle nostre vite.

Perché risulta chiaro che alcune ideologie sono più produttive rispetto ad altre. Il fanatismo, ad esempio, può essere considerato la magia improduttiva per eccellenza, per quanto esso sia praticato dalla stragrande maggioranza degli esseri umani e perfino in Occidente! Per di più, è possibile scegliere una magia sulla base di criteri di valutazione ragionevoli? Poiché la magia, sia essa matematica o finanziaria, resta pur sempre passionale! Com’è possibile illudersi che una magia volgare e priva d’avvenire sia più efficace, rispetto ad un progetto ben strutturato e a lungo termine, il quale ha perso di conseguenza l’incantesimo del successo immediato?

E questo avviene in un mondo dove la velocità, quando non la fretta,

l’apparenza e l’esaltazione dominano le attività umane. Però bisogna stare attenti, poiché "pazienza e dilatazione del tempo" possono rimare con l’immobilismo annientatore del conformismo, e bisogna pure essere consapevoli del fatto che è impossibile limitare l’insaziabile umano, il quale, nella migliore delle ipotesi, da quantitativo diventerà qualitativo...

Ciò che è certo, è che non si è mai sicuri del peggio. Ecco perché taluni riescono a regolare la loro parte ragionevole in modo efficace, tanto da porsi continuamente la stessa domanda: è possibile accettare la sconfitta momentanea o è necessario ribellarsi immediatamente?

Il ludico isterico come nuovo fondamento

"La perdita delle certezze stimola il pensiero".

Edgar Morin

Tenuto conto di questa affermazione, sarebbe forse più facile identificare la parte ragionevole di ogni individuo? Nulla risulta più controverso, poiché per definizione ciò che è ragionevole è legato al conformismo del momento, fatta eccezione per l’arte contemporanea che fa della provocazione un nuovo conformismo. Pertanto, Antigone è da considerarsi come una vera eroina ribellatasi contro il potere politico in nome di un’etica immemorabile o la sua è semplicemente una provocazione affinché si parli di lei? Ci ritroviamo di fronte ad un dibattito analogo a quello sulla politica. Per non parlare del divieto implicito imposto dall’intellighenzia attuale, la quale escluderebbe qualsiasi tipo di de-costituzione, poiché considera inammissibile rinnegare i suoi idoli. "L’esercizio della critica viene ridotto ad un’attività perversa, se non addirittura terroristica", scrive il sociologo Bernard Lahire. Per non parlare di tutti coloro che osano riflettere da soli, ma sono abbastanza ragionevoli da non esprimersi a riguardo!

È perfino possibile credere di essere ragionevoli per conformismo, pur non essendolo affatto. Talvolta poi, possiamo illuderci di non essere ragionevoli (un’ispirazione, una poesia, un amore proibito), mentre invece lo siamo unicamente per bisogno di salvezza. Peggio ancora: nel momento in cui ci impegniamo con tutte le nostre forze in una ricerca, sia che si tratti di sport, d’arte, di scienza, di politica ecc., sentiamo il bisogno di una certa dose di presunzione, senza la quale non andremmo da nessuna parte. Con il rischio di cadere poi in una presunzione narcisistica smisurata: la stragrande maggioranza degli artisti dell’arte contemporanea non si considera forse un’opera d’arte?

Ecco l’equivoco, laddove può portare la megalomania, tanto da generare una confusione tra soggetto e oggetto, che questa tipologia d’arte cerca di praticare in ogni senso. Ma, dal momento in cui riconosciamo la megalomania come origine necessaria, com’è possibile identificarne gli eccessi?

Noi affermiamo che la confusione soggetto-oggetto è irragionevole. L’artista, infatti, non è un’opera d’arte, per quanto l’attore possa considerarsi tale nella vita, o il poeta possa convincersi di vivere nella continuità di una poesia. Chi è che non ha scritto "vivere come in una poesia"! Peggio ancora: trasformare la propria vita in un’opera d’arte, secondo il detto "l’arte è la vita", sembra portare alla morte dell’arte, poiché è come se non restasse più nulla da dire. Tali ragionamenti, che pretendono d’esser ragionevoli, si basano su qualche fatto sparso. Fatti che rendono plausibile, ma forse un po’ troppo affrettata, tale sintesi.

Cos’è che rende possibile l’amore per un’opera d’arte o cos’è che permette di produrne una? Poiché, per quanto si tratti di due cose distinte, il cultore d’arte, al fine di ritrovarsi nello "specchio dell’arte", recita la parte dell’artista, ossia di colui che non è ancora riuscito ad eguagliare. L’unica attività realmente ragionevole sarebbe, a questo punto, la creatività artistica poiché essa sola ci permette di giocare in maniera più autentica con l’impossibile del nostro insaziabile, perfino in caso di fallimento: "non esiste bellezza senza dolore" (Bacone).

Ma se è vero che l’artista non crea dal nulla, ma al contrario, ha bisogno di una serie di strumenti per farlo, ci troviamo di fronte all’atto di creazione di un nuovo mondo, spesso dotato di una lingua straniera (Proust).

Per arrivare a tanto è necessario, almeno temporaneamente, considerarsi dio.

Atto, notiamolo, assolutamente ragionevole!

E cosa importa se Jean Louis Chrétiens s’indigna, poiché l’uomo oserebbe, in tal modo, sostituirsi a dio? Per Theilard Chardin, dio era molto meno stupido! Considerarsi dio richiede qualche precauzione, che non prende colui che crede d’esser dio, cosa molto diversa e perfino più banale. É indubbio che considerarsi dio consista nel credere che la propria immaginazione, il proprio lavoro e la propria ispirazione saranno in grado di produrre l’inaspettato: "Un libro deve stravolgere ogni cosa, rimettere tutto in discussione", scriveva Cioran. Si tratta di un’aspirazione straordinaria, la cui realizzazione è alquanto rara. Ma questi tentativi incerti, imprestati, e perfino monotoni, peccano, in generale, molto più per codardia che per sciocca presunzione o per acriticità (ancora lo sguardo di dio!). Non osare immaginare tutto l’immaginabile, ecco in cosa consiste l’alienazione sostanziale, l’inibizione perfino troppo ordinaria che impedisce agli artisti di sfruttare al meglio le smisurate possibilità che si presentano loro. Per di più, per essere in grado di scorgere queste possibilità è necessario essere vigili. Non esiste gioia, né piacere più grande del sapere approfittare di una parte di ludico, il quale attraverso il campo della cultura, cerca di sviluppare un contrappunto creativo alla tragedia della vita, servendosi della sua volontà creatrice.

Giocare con l‘impossibile non è il solo appannaggio degli artisti, per quanto essi siano più abili rispetto ad altri nel farlo. Di qui, il rischio di cadere nell’elitismo dell’arte, fatto questo ancora più narcisistico, intollerabile e intollerante rispetto all’elitismo della conoscenza! Il gioco con l’impossibile dell’arte costituisce forse una nuova scala di valori dell’acculturazione alla Bordieu, oppure può prendersi gioco di tutti i valori stabiliti, perfino di quelli estetici?

Ad ogni modo, il ragionevole in ambito artistico sta prepotentemente dalla parte dell’irragionevole. È per questa ragione che il tumulto isterico ha permesso a Zonc, cosi come alla maggior parte degli artisti, di servirsi di un’ispirazione selvaggia, nata dal profondo delle motivazioni umane, di inventare nuove tipologie espressive, nell’abito teatrale, come in quello della pittura, della musica e di tutto ciò che rientra nel teatro delle rappresentazioni umane, familiari, amicali, professionali, politiche...

La qualità della presenza di un individuo è pari alla sua capacità di gestire l’intollerabile che è in lui e di convertirlo in piacere, in gioco, e non più consideralo unicamente come vincolo, inibizione, o addirittura disperazione insopportabile. E se è vero che molte persone si servono della propria disperazione a fini creativi, il loro tentativo non è certo vano Ma ciò non basta. Come affermava Gilles Deleuze, non è sufficiente soffrire d’un mal d’amore per essere ispirati e per avere qualcosa da dire. Ciò implica uno sguardo particolare su sé stessi, il quale permetterebbe ad un’attività più raffinata e più spontanea di riemergere, e di sottrarsi al razionale ordinario della vita, che da un lato ci fa comodo, e dall’altro ci opprime. Questa forma di razionalità, non solo è efficace, ma è diventata il consenso legittimo di una società che sarebbe, per così dire, basata sulla ragione. La scoperta da parte di Edgar Morin della follia di questa ragione ("l’idea diventa più reale del reale") ci apre gli occhi sul comportamento animista delle nostre società, le quali si nutrono di miti e al contempo proteggono i loro idoli. Ma questo capovolgimento del fondamento del pensiero filosofico ordinario, richiede, se non altro in nome del ragionevole, di trovare con urgenza dei nuovi punti di riferimento per sfuggire alla magia nera e ai fanatismi, pronti a prendere il sopravvento. Sforzandoci di creare un numero di illusioni sufficienti al proseguimento della vita.

È sempre Edgar Morin a parlare ne Le vif du sujet dell’"esistenza-gioco" dell’isteria esistenziale del troppo e del mai abbastanza, ovvero di una parola del corpo nata dall’emozione, e da un’elaborazione più o meno conscia, che sia in grado di garantire la realtà di una presenza. Questo "mostrarsi al mondo" ha come unica ambizione quella di riuscire a mantenere i rapporti con i paradossi della vita o, addirittura, di farne il proprio fondo di commercio.

É ragionevole, o meglio, è assolutamente necessario, cercare, a dispetto delle nostre contraddizioni o grazie ad esse, di giocare con la vita al di là o al di qua delle idee e del cosiddetto senso della vita.

Fortunatamente, non è possibile recuperare l’isteria a partire dalle idee. L’unico inconveniente è che il malessere dell’isteria può con troppa facilità voler giustificare il suo fanatismo. L’isteria sta tra due mali: la disperazione e l’orgoglio, i quali possono immobilizzarla e impedirle di giocare. Da qui ha origine la sua cattiva reputazione. Ma il giorno in cui essa si lascerà andare al gioco, sarà in grado di mostrare meglio quanto il ragionevole sia irragionevole...ma fino a che punto?

Traduzione di Flora Botta e Claudio Tognonato